Beccaria, cuore Toro: “Granata di famiglia. E mio figlio si chiama come Bacigalupo…”
Curatore del Museo del Grande Torino, tifoso doc dei granata, ideatore di una mostra che ha unito le due anime della città nel nome di chi non c’è più. Abbiamo raggiunto Domenico Beccaria, a pochi giorni dal ritorno nella sede del club della Coppa Italia vinta dal Toro nel 1943 grazie soprattutto al suo contributo.
Domenico, come nasce la tua passione per il granata?
“Mio nonno si chiamava Domenico come me, ed era tifoso del Torino. Faceva il capotreno in ferrovia, ed era collega di lavoro del trombettiere del Filadelfia.
Mio nonno ha cresciuto nella passione granata i suoi tre figli, tra cui mio papà Luigi che è il più vecchio, e mio padre ha trasmesso la fede a me. A mia volta ho avuto un figlio di 28 anni, e quando mia moglie lo aspettava, le abbiamo sottoposto una serie di undici nomi: ha scelto Valerio, come Bacigalupo…”
Tu sei presidente del Museo del Torino di Grugliasco. Raccontaci come è nata l’idea.
“Il Museo del Grande Torino e della leggenda granata nasce nel 2002, come iniziativa culturale dell’Associazione Memoria Storica Granata, nata nel 1995. Nel 1996 avevamo organizzato il centenario del Torino; mentre nel 1999 avevamo collaborato con l’allora presidente Vidulich per la mostra sui cinquant’anni di Superga. Venne così bene che ci chiesero di portarla in giro, e ci trovammo a fare 52 mostre itineranti.
Dopo tutto questo girovagare, abbiamo deciso di metter su il Museo a Superga – spiega Domenico Beccaria – su 110 metri quadri concessi dalla Basilica. Era un museo con uno spazio esiguo, e lo concentrammo sul decennio di vita sportiva che andava dal 1939 al 1949, ossia dall’arrivo di Ferruccio Novo alla presidenza sino alla tragedia del 4 maggio.
Poi ci siamo trasferiti a Villa Claretta, dove siamo dal 2008, a Grugliasco, aumentando lo spazio dal 1906 sino ai giorni nostri; modificando la nostra ragione sociale in “Museo del Grande Torino e della leggenda granata”. Ora siamo in attesa di trasferirci al Filadelfia e speriamo di poterlo fare nel giro di un paio d’anni”.
Capitolo Coppa Italia 1943, che finalmente è tornata nella sede del Toro. Come sono andate le cose?
“Parlai in prima battuta con Cimminelli padre, domandando un prestito – rivela Beccaria – ma i tempi non erano ancora maturi; anche perché le ferite del fallimento erano ancora fresche. Ci siamo tenuti in contatto, fino alla sua scomparsa, e la Coppa l’avevano conservata i figli.
Mi riuscii a mettere in contatto con loro, e riuscimmo ad arrivare a una soluzione, firmando le carte; nonostante i numerosi rinvii per via della pandemia.
Il 22 marzo di quest’anno, anniversario di nascita di Ferruccio Novo, era la prima data possibile; ma abbiamo dovuto spostare tutto al 9 aprile, che è invece l’anniversario della scomparsa di Novo. E ce l’abbiamo fatta”.
Il fiore all’occhiello di queste iniziative, è la collaborazione anche con le commemorazioni per l’Heysel, tragedia che colpì la Juventus.
“Nel 2014, collaborando con Domenico Laudadio, che cura il museo virtuale sul web ‘Sala della memoria Heysel’, abbiamo messo in piedi una mostra dal titolo ‘Settanta anime sotto lo stesso cielo’, che univa i caduti dell’Heysel e di Superga.
Durante la cerimonia inaugurale abbiamo letto i 70 nomi delle vittime di Juventus e Torino in rigoroso ordine alfabetico; senza distinzione di Juve o Toro. Abbiamo allestito la mostra alternando immagini e reperti di una tragedia e dell’altra.
Quando persone innocenti perdono la vita in una situazione legata a una partita di calcio, non è mai una tragedia di parte.
Abbiamo voluto chiaramente dire che è giusto fare il tifo ‘pro’, e anche il tifo ‘contro’. Ma ci sono dei limiti oltre cui non bisogna andare. I morti vanno lasciati in pace”.
E sappiamo che tra i tifosi, il campanilismo aveva tristemente prevalso, vero?
“Mi sono sentito dire di tutto. Io me ne sono fregato, perché qualcuno deve iniziare. E se pretendi rispetto per i tuoi morti, devi essere pronto a darlo ai morti altrui.
Sono felicissimo di aver fatto questa cosa, perché quando siamo partiti con la nostra idea della mostra, avevamo un 10% di favorevoli e un 90% di contrari in entrambi gli schieramenti; e poi siamo arrivati alla mostra con un 50 e 50. Perché la gente aveva capito cosa volevamo fare.
Non era un gemellaggio, ma issare dei paletti, rendere onore a chi se lo meritava. Della serie, in campo ce le suoniamo nel rispetto delle regole e dell’avversario, ma fuori dal campo non si va oltre certi limiti.
Mi ha fatto piacere spostare questo asse, ma soprattutto per i rapporti che ho creato con le persone dello schieramento opposto”.
Oggi i tifosi paiono avere poca memoria storica, anche se i contenuti di storytelling calcistico stanno aumentando sia in video che nello scritto. Come si pone il tifoso del Toro davanti alla storia della propria squadra?
“Ho una risposta ben precisa: quando andai a bussare dai vari gruppi di tifosi, organizzati e non, nel 1994, per la nostra idea del Museo, il Toro viveva ancora una fase positiva della sua storia.
Avevamo raggiunto gli ottavi di finale di Coppa delle Coppe con l’Arsenal; al tifoso interessavano i risultati sul campo. Chi con le buone, chi con le cattive, respinse le mie iniziative.
Col passare del tempo invece è accresciuto l’interesse per le vicende storiche. Sono in contatto col curatore del museo della Juventus, che ho visitato, così come lui ha visitato il nostro.
Ricordo che quando visitai il museo bianconero, rimasi molto a lungo e lui mi disse, stupito: “Ma sei ancora qui? Il tempo di percorrenza di solito è dieci minuti o un quarto d’ora…”. Per cui l’impressione che ho è che l’interesse per la storia è inversamente proporzionale ai risultati sportivi; quanto più la squadra ha risultati nel presente, tanto meno i tifosi si interessano del passato, e viceversa.
E in questo momento direi che sono una ventina d’anni che ai tifosi granata interessa più la storia, proprio perché non ci sono i risultati…”, ha chiosato Domenico Beccaria.
Fonte: Europacalcio.it